La mia India

Sono stato a Mumbay per lavoro, qualche anno fa, mi sono spinto fino a Damão, ex capitale della colonia portoghese fino al 1947, sulla strada verso il Pakistan. La mia India l’ho fotografata in strada, nel traffico, dal finestrino dell’auto in movimento, con la polvere negli occhi, mentre l’autista mi portava al lavoro. Questo il mio racconto e le mie poesie istantanee, un tumulto dell’anima.

 

 

 


Siamo sull’asse del mondo, patria di un passato mitico, fiorente e ricco, complesso multicolore eterogeneo di razze, idiomi e religioni. É così vorticoso il movimento della folla nelle ore di punta che si riesce a superare a fatica l’ansia del traffico per arrivare al lavoro. É una fortuna avere un autista personale e mi perdo negli sguardi distratti dei compagni di sventura al semaforo.

L’autista l’ho soprannominato Jonni secco. Non perde mai la pazienza al volante, ride sempre e ogni tanto sputa alla sua destra sul tappetino del passeggero, egli precisa che se sputasse fuori dal suo finestrino sarebbe peggio. Capisco e lo lascio fare. Siamo tantissimi all’incrocio e percepisco uno strano ordine cosmico. Ogni volta metto a fuoco una persona diversa, milioni di donne e uomini, scruto nei loro occhi scuri, mi diverto analizzando mezzi diversi al limite del sensazionale: sono carri sospinti da buoi, ruspe, motorini con quattro bambini e Ferrari California. Tutti si muovono come a cercare schemi mandalici. Immagini e suggestioni al limite del fumetto distopico. Mentre a lato i marciapiedi si muovono all’alba, in un odore d’umanità quasi insopportabile, regalo una rupia ad un acrobata di strada, che in mezzo alla folla, si regge in piedi a malapena su un bastone di legno conformato dal peso. Sui camion colorati e polverosi intravedo i marchi e le numerose svastiche, simboli che affascinarono anche “baffetto” per la creazione del suo folle piano.

In realtà questa simbologia induista significa l’evoluzione del primo principio della creazione, l’evoluzione dell’innocenza e della divinità.

La croce uncinata verrà accostata al partito nazista nel 1920 quando Karl Haushofer, appassionato di cultura giapponese e indiana, convinse Adolf Hitler ad adottarla come simbolo snaturandone l’accezione positiva.

Sembriamo tutti avatar figli di Ganesh che vivono ignoranti, sul pianeta condiviso, in un tempo non loro, auspicando il divenire in qualcosa di diverso. Tornare e ritornare, trasformarsi come vuole il mondo, come un attore di Bollywood, per vivere al riparo al di là  di questo interminabile muro nero difeso da enormi banyan e dalle loro radici che abbracciano il mondo.

 

 

 

Questa gente non teme il monsone
è l’evento sospeso tra miracolo e delirio nella quotidiana lotta per sopravvivere
e io così nudo nelle mie aridità appese al nulla
nelle sterminate campagne di palude e terra secca
sogno le notti di Shiva
le barche dei pescatori tutti con la faccia di mio padre
attratti dal mondo psichedelico della montagna d’oro
tra le braccia della danzatrice sacra
la dea dagli occhi di pesce mi trasportò in una notte
fino all’antica città carovaniera capitale della dinastia lunare
Jaisalmer di fango e templi tra monaci e vergini adornate di perle nere
mentre m’appare cupa a specchio già in dissolvenza la mia presenza nel mondo

 

Scattata sulla spiaggia di Mumbay al crepuscolo. I soggetti della foto originale sono le due bimbe rosa confetto. Ma lei mi sorprende e urlando entra nell’immagine. Un istante indimenticabile

Il nostro autista continuava a sputare
mentre si allontanava dall’aeroporto la notte ci abbandonava e si apriva intorno la luce della realtà
i marciapiedi prendono vita sotto i teli neri di nylon
gente e corvi alzarsi dall’asfalto dopo il riposo
a tentare di sopravvivere in strada un’altra alba a Mumbai
odori in frantumi e frastuono
spazzatura e scuole con bambini ordinati e stoffe appese nei centri commerciali
le luci dei neon con improbabili occasioni.
l’autista era teso non conoscendo l’indirizzo
guidava un vecchio millecento bicolore
tanto umido fuori quanto sporco dentro
eccomi giù per il tubo tra scimmie e topi e fango per la mia cravatta nuova
i culi per aria l’acqua di colonia le fabbriche di profumo nei sottoscala
già le Colonie ecco le Indie così vicino a Goa
tra grattacieli discariche d’uomo in attesa di un altro giorno atomico nella città delle sette isole

Un’immagine suggestiva: le donne di casta elevata dopo lo shopping si consentono un pediluvio al crepuscolo

Ti ho vista passando con una Jeep poco fuori Mumbai

Capelli neri vorrei guardarti spazzolare dolcemente
candidamente tra lamiere e topi nella casa di bambola
sull’orlo di un burrone sventrato dai caterpillar che stanno distruggendo gli slum
la tua casa non ha più uno specchio
stava dall’altra parte

Capelli neri vorrei guardarti spazzolare
nella casa che è la sezione di ciò che rimane
hai perso le tende colorate perché l’uscio e le finestre sono state spazzate via dalle ruspe
dal progresso da una pista più grande verso Nord
adesso è più facile entrare forse pulire
certamente prender aria anche se dalla strada giungono fumi che uccidono
l’alloggio mezzo vano ha un’unica grande aria
piano terra
mezzi mattoni a vista
dà sulla via per Damaô
se ti butti puoi salire sul tetto della Jeep
si è salvata la tv con i balli dentro e il tetto di lamiera
ti sei salvata tu vestita di verde e oro

Capelli neri vorrei guardarti spazzolare
riconoscere quello che forse era un sorriso

Il mezzo più comune a Mumbay è il Tuc Tuc. Un’apecar marziale pronta al traffico estremo. Uno dei miei scatti più appassionati. Lei è una donna importante, di bianco vestita in lungo con la borsa. Lui dovrà ancora fare molti viaggi per emanciparsi, guida con la solita postura.

La fotografia d’apertura ha una genesi molto particolare: siamo a Damão e quando intravedo la spiaggia impazzisco (sono lì per lavoro), così chiedo a Jonny secco di fermarsi. Lui è contrariato, mi dice che se lascerò il land rover, lui non sarà più responsabile, e nel caso non tornerà a prendermi. Non capisco il motivo di tali preoccupazioni e mi scaravento giù. Jonny si addormenta sul volante. Attraverso velocemente una pineta e a fatica evito gli escrementi sulla sabbia. Ma sono troppo preso dall’orizzonte, poi la puzza aumenta e ci sono anche diverse pelli mutate dai serpenti, questo non mi lascia indifferente e l’ansia aumenta quando da sotto il grande gozzo si svegliano due cani randagi che mi scrutano con uno sguardo non molto amichevole. Scatto velocemente e ritorno alla macchina. Anche questa prova è superata: qui tutto è riconducibile ad una sfida con la Terra e non è così scontato RIPORTARSI tutto a casa.


 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.